ANNO 14 n° 119
Livingstone in salotto Sì viaggiare
>>>>> di Massimiliano Capo <<<<<
16/03/2015 - 02:00

di Massimiliano Capo

VITERBO - Siamo all’inizio del Settecento.

Immaginate un signore chiamato Polycarpus Leyser che si mette in testa di riscrivere le regole con cui descrive il mondo.

Parliamo di geografia: del modo, cioè, di dar vita alla mappa di ciò che ci circonda.

Polycarpus, insoddisfatto sia della classificazione tassonomica (tutta presa ad incasellare per lettera città, territori e ogni altro tipo di fenomeno fisico senza avere la capacità di descrivere compiutamente alcunché), sia della classificazione politica (in un tempo in cui si susseguivano guerre e trattati di pace tali da modificare appartenze e confini a ritmo quasi giornaliero le carte pubblicate oggi erano superate all’indomani), propose di procedere alla descrizione dei fenomeni naturali svincolandoli dalle mutevolezze del tempo della storia umana.

''Questi segni (quelli della natura) sono più stabili, perché non è molto facile rimuovere le montagne o deviare il corso dei fiumi o tramutare il mare in terraferma''.

Viaggiare ha a che fare con lo sguardo.

Con noi che guardiamo il mondo. E con il mondo che a sua volta guarda noi.

Ha a che fare con il territorio che attraversiamo muovendoci.

L’etimologia di territorio è questione dibattuta: c’è che la fa risalire alla stessa radice di terra (il verbo latino terere, che sta lì per arare) e chi invece da terrere, verbo che nulla ha in comune con la terra e molto invece col terrore, con l’esercizio del potere e l’amministrazione della giustizia.

Il territorio diventa così spazio politico.

Sembrano oziose questioni filologiche e invece, come sempre accade quando si ha a che fare con le parole, queste dispute hanno a che fare col nostro modo di vedere, di vivere, di percepire ciò che ci gira intorno.

E di costruire intorno a questo modo di vedere, vivere e percepire, il nostro modo di relazionarci gli uni con gli altri.

Se il territorio è spazio politico e la terra è lì a raccontarlo, bene fece il buffone di corte del marchese Obizzo III d’Este, signore di Ferrara, tal Gonella che, cacciato da Verona, a pena della morte se fosse tornato, si ripresentò nella città scaligera a bordo di un carro ricolmo di terra ferrarese e quindi intoccabile per i termini del bando che lo riguardava.

Viaggiare, muoversi, uscire da sé, conoscere, compiere un giro (turismo deriva da tour), fa così parte di noi esseri umani che ci si suole far risalire tutti ad antenati nomadi la cui eredità inconsciamente ci portiamo dietro anche a distanza di millenni.

E mentre per i nostri ipernonni viaggiare era sopravvivere in condizione solitamente avverse, per noi si tratta di assecondare un bisogno e una fame che non conosce requie.

Un doppio moto, circolare il primo e lineare il secondo.

Il primo verso una meta per poi tornare al punto di partenza (certamente cambiati); il secondo a designare e disegnare il tragitto in avanti della nostra esistenza terrena, dove ogni momento è destinato a non tornare più.

Oggi sono stato a New York.

Era tardi ieri notte (eravamo ampiamente già entrati nella domenica) e mi sono messo a guardare un vecchio film, uno di quelli americani tosti, con Gene Hackman e Roy Scheider, due facce cazzute di poliziotti alla metà degli anni settanta, tra trafficanti di droga e una città raccontata (per immagini) meravigliosamente.

Ero lì che li ascoltavo sbraitare in slang (benedetto sia Netflix) e pensavo a questa nuova paginetta settimanale che insieme alla redattrice fashion abbiamo deciso di chiamare Livingstone in salotto.

Che sta per provare a dire del viaggiare senza muoversi dal sofà da cui sto scrivendo.

Dicevo, oggi sono stato a New York. Perché quel film, insieme a tutte le immagini che conteneva, a quelle che mi ha sollecitato, a quelle che recuperato in rete, alle notizie che lo riguardavano (gli attori, il regista, le location); tutto ha concorso a farmi atterrare a New York e in pochi secondi a sentirmici come fosse un luogo noto.

Dirlo mentre sto comodamente seduto, col portatile sulle gambe e fuori imperversa una piccola tempesta di pioggia e vento, apre lo spazio ad una domanda che ha a che fare col mutamento profondo che stiamo vivendo.

Mutamento che ha a che fare con la Rete.

La domanda è semplicemente questa: è più possibile viaggiare (conoscere cioè l’effetto straniante dell’altro da sé)?

Da cui: quanto del viaggio, inteso tradizionalmente, è rimasto a disposizione per la nostra esperienza di vita? Quanto di quella che una volta sarebbe stata l’estrema periferia del nostro mondo è rimasta tale?

E quanto di quello che ci circonda è esperibile davvero senza una coscienza allargata, espansa, pronta alle connessione con le energie cosmiche che ci circondano?

Non è questione di oggi. Ha a che fare con il nostro essere nel mondo da sempre.

Ha a che fare con la fantasia. Con la poesia. Con la capacità di astrarre e creare.

Ha a che fare con la vita, piena e consapevole. Curiosa e aperta agli slanci vitali.

Con il viaggio che ci è dato di compiere su questa terra.

Salgari scrisse la saga di Sandokan e dei suoi pirati senza muoversi dalla sua Torino. Calvino descrisse città invisibili dai nomi di donna mettendole in bocca a Marco Polo e alle pagine delle sue relazioni a Kublai Kan.

Aga Magera Difura è un imperdibile dizionario di lingue immaginarie.

Per chiudere il tour.

E per ricominciare a viaggiare di nuovo.

Buon lunedì!





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